Editoriale di memorie e guerra
Quale archeologia?
di Paola Musarra
Alcuni anni fa MeDea accolse alcune mie riflessioni sul tempo (Il deserto fiorito), la memoria (Identità e memoria) e l'oblío ("Passa la nave mia...").
In quel contesto vi avevo proposto una piccola bibliografia nella quale figuravano tra gli altri il sempre attuale - ahimé - libro di Nicola Gallerano ( Le verità della storia. Scritti sull'uso pubblico del passato, manifestolibri, Roma 1999) e l'inquietante volume di Weinrich ( Lete. Arte e critica dell'oblio, il Mulino, Bologna 1999).
Oggi dal nostro passato storico affiorano dolorosamente ricordi personali e memorie collettive. Al posto dell'oblío (inconsapevole? misericordioso? opportunista? connivente?) una luce implacabile scava - e dà rilievo e forma - a fatti, luoghi e persone ignorati o rimossi.
Ben venga questa salutare incursione nel passato, purché non si tratti di una maldestra archeologia, che estrae e disordinatamente accumula reperti, sconvolgendo le stratificazioni e la trama del tempo per sbatterli sotto i pubblici riflettori senza tener conto del contesto che li ha generati.
In uno scavo ben organizzato l'archeologo delicatamente indaga, scrutando e seguendo tracce anche impercettibili. Inevitabilmente invade, certo, col suo stesso intrusivo indagare, ma al tempo stesso ricostruisce, riannoda i fili, "rammenda" un tessuto prezioso che rende intellegibili (questo è essenziale) e fa rivivere per noi storie di vite trascorse, con tutto il loro carico di emozioni, dolori, speranze.
Ricostruire contesti e narrare storie, dunque (sembra quasi di sentire la voce di Gregory Bateson), nella piena consapevolezza di applicare sempre e comunque dei filtri, a dispetto della patetica pretesa di una presunta "oggettività" (dell'archeologo, dello storico, del giornalista, del testimone...).
Il dato oggettivo in sé non esiste, neanche nelle scienze "dure": è sempre frutto di una "visione" che ha guidato la scelta di quel dato, è frutto del punto di vista di chi osserva, del coinvolgimento tra osservatore e osservato.
Ma allora, come proteggersi da scelte faziose e visioni parziali, soprattutto nel caso di eventi storici (remoti o recenti) in cui il "dato" è un essere vivente?
Innanzitutto convincendosi che la ricerca storica è un inevitabile work in progress e che la verità assoluta non esiste - ma va ricercata (scusate il paradosso).
Inoltre, dopo aver accanitamente ricostruito o meglio tentato di ricostruire il tessuto contestuale, occorre "dar voce" a chi è stato protagonista delle vicende, evitando rozze semplificazioni del concetto di "altro" (considerato - e mantenuto - come altro-da-sé), affinché possa far nascere il suo coinvolgente racconto.
E' quanto stiamo cercando di fare su MeDea con il nostro lavoro sull'Albania.
E' quanto ci propone Guido Crainz in un suo recente libro.


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