Badia Prataglia, vacanza-studio 2015
C'è un luogo molto bello nella valle del fiume Natisone (la Nediža in sloveno). E' un ristorante dove ogni estate il mio compagno Gianni Tomasetig ed io amiamo incontrare gli amici (e mangiare delle ottime trote).
... con Pino Longo...
foto: P.Musarra
La località si chiama Specognis. Il ristorante è leggermente sopraelevato rispetto al fiume, che ci fa sentire il suo respiro nei giorni di grande caldo.
Per molti anni Gianni ed io abbiamo avuto il privilegio di incontrare a Specognis il bassotto Alcibiade (precisiamo: è un bassotto nano a pelo lungo), insieme alla sua famiglia (Pino Longo e sua moglie Tiziana, con la madre di lei Maria Grazia).
Bisognava rispettare un preciso rituale: Alcibiade (che ha vissuto un'infanzia infelice) non andava in alcun modo sollecitato né con voci né con gesti bruschi: doveva essere lasciato libero di trovarsi da solo una sistemazione gradita, senza interferenze.
Ricordo ancora con orgoglio, come una grande conquista, quella volta che durante il pranzo si adagiò sul mio piede... Gianni dal canto suo ha sempre rispettato Alcibiade, considerandolo un cane filosofo, come appare dal suo sguardo meditativo nella foto riprodotta sulla copertina del libro a lui dedicato (la foto è di Paolo Longo, il fratello di Pino):
Oggi mi tocca il compito, gradito ma arduo (dirò dopo perché) di presentare questo nuovo libro di Pino Longo: Alcibiade. Una suite per bassotto (ediz. IL CERCHIO SRL, 2015).
Il libro si articola su diversi anni, dalla giovinezza del bassotto fino alla sua tarda vecchiaia. E' un lungo monologo, che però "respira" grazie a titoletti in maiuscolo che ne interrompono il flusso, o se preferite, il percorso armonico, sottolineando con opportune pause in quale direzione sta per volgersi la danza del divagante pensiero.
Prima ho detto che il mio compito sarebbe stato arduo, cerco di spiegare perché.
Dunque, ogni anno della vita di un uomo corrisponde, almeno così si dice, a sette anni della vita di un cane. Inevitabile quindi una riflessione, o meglio, una meditazione sulla vecchiaia (Alcibiade ha appena compiuto diciassette anni...) e sulla morte. L'Autore stesso lo afferma (e in maiuscolo), anche se sostiene di non volerci pensare: (p.95) "IL PENSIERO DELLA MORTE E' DIETRO A TUTTI GLI ALTRI PENSIERI".
Ma le cose non sono così semplici.
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Nel libro affiora a tratti un filone di pensiero inquietante, che ci porta molto lontano da quelle simpatiche celebrazioni che i padroni di cani, gatti o altri animali da compagnia scrivono per i loro beniamini.
Osserviamo ad esempio Alcibiade che mangia, o meglio, osserviamo Longo che osserva il suo bassotto che mangia (p.13):
"... quando lo vedo alle prese con un osso ancora guarnito di qualche lambello di polpa, lavorando con quei suoi molari seghettati e taglienti, aggiustandosi l'osso e tenendolo fermo con una delle sue corte zampette, quando lo vedo impegnato in quest'attività di spolpamento e di progressivo attacco alla sostanza ossea dura e biancicante, provo un senso di disagio, specialmente provo disagio quando l'osso è una rotula, coperta di alba cartilagine, e so che quella rotula proviene da quello che fu un vitello e che quel vitello è stato ammazzato in modo violento, che la sua vita è stata stroncata e che è stramazzato a terra scalciando brevemente, non oso neppure immaginarmi i particolari dell'abbattimento, so però che il macellaio qualcosa gli ha fatto, qualcosa di brutto e definitivo, e ci vuole un bel coraggio per far questo a un animale, a una cosa viva e morbida e grande, che è piena di tepido sangue, che ha gli occhi e la pelle e il muso caldo e umido."
Segue una riflessione sul mangiar carne (e quindi uccidere animali per farli diventare cibo), o in alternativa diventare vegetariani (cosa da escludere per l'Autore, perché, afferma, la carne gli piace troppo...). Inevitabile dunque questa mattanza, con le sue terribili pratiche, come quella dei venditori indiani poverissimi che si accaniscono su vacche magre stecchite, incapaci di difendersi, colpendole senza pietà.
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Mordere, rosicchiare, spolpare, smembrare, scarnificare... Addentriamoci nelle selve narrative di Longo, seguendo questa traccia crudele. Il varano di Komodo, ad esempio, quando azzanna un animale indifeso lo sbatte qua e là, lacerandogli la pelle del collo, i nervi e le vene. Allo stesso modo certi uomini sono attratti da una debolezza, da un difetto fisico che scatena in loro il desiderio, "un desiderio fatto di violenza, di sopraffazione, di morsi..." da "Varani a Komodo"; in Prove di città desolata (Mobydick editore, Faenza 2003, p.33).
Ma torniamo ad Alcibiade, detto Alci (il destino dei nomi lunghi...).
Dopo aver un tantino tergiversato, Longo ci racconta un sogno, un sogno rivelatore, un sogno fulvo e rossiccio, come la pelliccia del cane (pp.20-21): "Insomma nel sogno Alcibiade era morto. Ed io lo mangiavo. Ne mangiavo pezzetti che strappavo dal suo corpo inanimato, o meglio, facevo l'atto di mangiare, perché in realtà non masticavo. A un certo punto scartavo una zampetta ancora tutta coperta di pellicia, dicendomi che era troppo fredda e bagnata (Alci era stato a correre in giardino dopo la pioggia) e anche troppo magra. Poi mi capitava in mano un occhio ancora incastonato nel frammento osseo che lo racchiudeva come una valva, e quest'occhio mi guardava, nerobruno, lucido, vivo, e mi trovavo sottomano il cranio, biancicante, già spolpato, senza più carne o pelo, e il cranio fremeva e palpitava, era percorso da spasimi e contrazioni e mi dicevo con trepidazione è vivo, allora è vivo! e cercavo di reinserire l'occhio dentro il cranio al posto giusto, come un bottone in un'asola,e speravo che la morte di Alcibiade fosse solo apparente o almeno reversibile, come invece la morte non è."

L'Autore si dà una interpretazione gratificante di questo sogno (p.24): "se lo mangiavo significa che volevo incorporarmelo, farlo rivivere dentro di me." Dal canto mio sono molto colpita dall'insistenza su alcuni particolari anatomici: l'occhio, il cranio...
La precisione anatomica raggiunge il suo apice nel racconto di una brutta avventura vissuta dal bassotto, caduto in una foiba durante una gita sul Carso. Per fortuna, precipitando, si era fermato su una cengia, su una sporgenza. Da lì lo estrasse con perizia un pompiere. "E se il pompiere l'avesse afferrato male e il bassotto gli fosse scivolato via di sotto, senza arrestarsi sulla cengia..." (p.53).
E qui comincia quella che l'Autore stesso definisce una "tristissima fantasia", (ricordate Alfredino Rampi?), con l'immagine del cagnolino che muore lentamente in fondo al pozzo... e di lui dopo mesi o anni resterebbe solo uno scheletro bianco, bianco, "il colore più tremendo della natura" (p.55), e dello scheletrino Longo enumera ogni parte, compresi gli astragali, i cinque ossicini del tarso, adatti all'antico gioco degli aliossi...
A propositodelle caverne del Carso, prendiamo in mano un libro terribile, Camera d'ascolto (Mobydick editore, Faenza 2006). Se siete delicati/e di stomaco NON LEGGETE "Amuleto", ambientato in un vagone ristorante, tanto avrete modo di approfondire il rapporto cibo-disgusto-desiderio leggendo per esempio "Brasato per tre" (in Avvisi ai naviganti, Mobydick editore, Faenza 2001), oppure "Stilton di sera" e "Il cervo" in Squilli di fanfara lontana (Mobydick editore, Faenza 2010), (ah, l'agonia del cervo e l'apoteosi finale con la zuppiera fumante...), per non parlare di "Bocche" (ne ho già parlato su MeDea).
Ma torniamo alla Camera d'ascolto. Anche di questo libro ho già parlato su Medea. Un libro dedicato all'agonia e alla morte della madre.
Ma stavamo parlando del Carso, ascoltate: (p.153)
"In queste notti calde e serene sono preda di ricordi febbricitanti e lacerati. (...) Mi scuoto e mi assale l'orrore delle caverne, dei buchi, degli inghiottitoi del Carso, ho una paura folle di queste cavità nere e traditrici che si aprono nel corpo della terra, rivelando improvvise oscurità telluriche."
Il corpo della terra, il corpo della donna, il corpo della madre. Paura, ribrezzo e desiderio incestuoso. "Va' via, va' via, sei morta, non puoi tornare! E questo tuo ritorno mi riempie d'angoscia.(...) Come farò a liberarmi di te?" (p.153)
Prendiamo fiato
anzi
PRENDIAMO FIATO
Non vorrei lasciarvi con l'idea che vi ho parlato di un libro terrificante, corro subito ai ripari: apriamo le porte alla tenerezza (pp.11-12):
"Alcibiade cerca il contatto fisico: fin dall'inizio,per debolezza o per languorosa dolcezza, non gli abbiamo proibito niente, quindi sale sul divano dove stiamo a guardare la tivù, sale sul nostro letto (anzi sui nostri letti, perché li abbiamo separati per questioni termiche, io ho sempre caldo e mia moglie ha sempre freddo, così per evitare il divorzio abbiamo deciso di dormire in due letti separati: il mio, sobrio e scarno, è il letto spartano, o francescano; il suo, imbottito e monumentale di coperte e piumini e gualdrappe e coltroni e accresciuto da un futon che rinforza e sostiene un materasso già di per sé robusto, è il letto faraonico o babilonese), e, quando non opta per il cuscinone, Alcibiade sale a piacer suo sull'uno o sull'altro di questi due letti, lo spartano o il babilonese, e si sdraia e dorme, specie quando il sole l'inonda di flavizie, e quando nei letti ci siamo noi entra sotto le coperte e, appunto per bisogno di affetto, preme la pancia o il dorso contro di noi, si aggiusta e aderisce e solo quando la zona di contatto è la massima possibile sembra appagato, emette due o tre grandi sospiri di soddisfazione e si addormenta. E se il prescelto di noi fa tanto di muoversi un po' per cercare una posizione migliore o altro, eccolo rugnare e ringhiare di fastidio e brontolare e sbuffare: insomma comanda lui e non tollera sgarri.".
C'è un'altra particolarità di Alcibiade che a me piace molto, e piace anche a Pino. Ascoltiamolo: (pp.17-18) "Quando rientro me lo trovo festevole e scodinzolante tra i piedi che esige la sua dose di carezze e in cambio mi porta in bocca un suo giocattolo o una pantofola o un giornale, ma non lo fa per me, perché si rifiuta ostinatamente di cedermi il trofeo: lo fa per sé, per esibizionismo o per manifestare gioia."
E' proprio quello che fanno i bambini piccoli. Voi vi sedete in salotto a parlare con i genitori, loro arrivano, vi guardano e, se siete degni della loro approvazione, corrono a prendere nella loro cameretta i giocattolini preferiti e ve li portano trionfanti.
La presenza di un cane fa ringiovanire e, dice Pino, "allevia il dolore della condizione umana" (p.100). Sa che Alci è vecchio e che la sua morte lo farà molto soffrire. Smette di scrivere e corre ad abbracciarlo...
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Mi piace concludere queste riflessioni invitandovi a trasferirvi sul sito di una cara amica, Paola Rosati. Troverete una poesia scritta da un imperatore cinese vissuto nel Settecento e dedicata al suo cavallo bianco...
La poesia scelta da Paola Rosati
Longo su Medea