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Il linguaggio delle perturbazioni
Gli "Avvisi" di G.O.Longo

di 
Paola Musarra - le cose che ho scritto per MeDea

 

   prima parte
Seconda parte

nube e luna - acquerello di Paola Rosati
Il maggior carico di ambiguità e di tensione irrompe nel racconto quando Longo decide di mettere in scena l'io narrante: l'io ebbro ed eccessivo di Brasato per tre, l'io febbricitante di A Zenoburg, l'io schivo e sensualissimo di Per la greca del Maryland, l'io logorroico di Saturno sul tetto del bunker.

In questi quattro racconti i verbi al passato e al trapassato disegnano le forme del tempo e dello spazio in cui si muovono i protagonisti, solo apparentemente "lontani" da noi, perché l'uso della prima persona singolare ci trascina rapinosamente (i paragrafi perdono i loro confini) nel vortice delle sensazioni evocate e rievocate - odori, sapori, visioni che ci rimangono addosso, dentro: il brasato duro e stopposo, il gelo medioevale delle lenzuola a Zenoburg, l'odore che emana dal corpo della greca, e le scarpe, le incongrue scarpe da ginnastica della sorella di Valich...

Vorrei soffermarmi però su altri due racconti, estremamente ambigui, caratterizzati da un moto di oscillazione io/lui, io/lei, presente/passato.

La stagione dei viaggi. Qui il passaggio continuo, anche all'interno dello stesso paragrafo, dal presente al pasato, dalla prima alla terza persona, crea una strana vertigine, come quando si rovescia un cannocchiale, o si cambia una lente (non a caso, penso, il racconto inizia nello studio di un oculista). L'occhio stanco deve continuamente aggiustare il fuoco della visione, passando da un presente dinamico ma straniante a un passato lontano "che chiama con il fascino dell'immobilità".
"Io devo tornare a casa, - dico (...) con decisione.
Liboff mi guarda un po' stupito, però non insiste per trattenermi. Mi porge la mano e dice:
- A domani, allora. Buona notte.
La signora Liboff invece si trattenne e gli chiese a bassa voce:
- E' sicuro di volersene stare solo?
E c'era in quella voce un'intensa e malinconica dolcezza, un richiamo a giorni più lontani, quasi sfuggiti alla memoria, irrecuperabili."
(p.84)

La moglie del fornaciaio. Una "lei" che parla parla parla al presente ("dice... mi dice... dice...") a un "io" che la guarda con distacco, si guarda intorno, parla poco, beve e riflette: "mi dico... non so cosa dirle... ridacchio fra me e me... ascolto distrattamente...".
Poi però, piano piano i sensi si risvegliano. C'è un primo approccio fisico tra disgusto e sensualità che si prolunga finché... "... finché mi parve che non si potesse prolungare, quel contatto, senza che diventasse esplicito ciò che non doveva diventare esplicito e anche lei doveva averlo capito..."
I verbi improvvisamente virano al passato e cadono come una mannaia, interrompendo l'ebbrezza e l'eccitazione; l'io narrante recupera la lucidità dello sguardo ("adesso la guardavo e l'ascoltavo con attenzione"), mentre "lei" continua ad avvilupparlo nel racconto della sua vita delusa.
Col declinare del giorno poi, tutto si stempera nella tranquillità e nel silenzio: "dormiamo ancora un po', mi dissi", finché tutto si conclude con un inaspettato gesto di tenerezza - o forse con una richiesta d'aiuto: "allora tesi le braccia e la donna venne a me". Ancora una volta, tutto è consegnato al passato, in pace.


continua

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