Nella sala grande di bibli, la mia libreria romana preferita, accanto ai computer ci sono libri e riviste che
riguardano il mondo dell'informatica.
Qui ho trovato nel 1996 il primo numero di INFO@Perla (è stato la
causa scatenante della mia collaborazione con MeDea); qui ho trovato nel 1998 il libro di Giuseppe O. Longo: Il
nuovo Golem. Come il computer cambia la nostra cultura (Laterza, 1998).
Esplorando la bibliografia del Golem, ho scoperto che Longo aveva scritto
alcuni libri di narrativa, nei quali mi sono addentrata, dapprima con
circospezione, poi con sempre maggiore coinvolgimento: La gerarchia
di Ackermann, I giorni del vento... L'acrobata, introvabile, finalmente scovato vicino casa.
E' un tessuto narrativo ansiogeno, vibrante, che evoca e crea immagini
corpose e allucinate, hantises inesplicabili eppure familiari
(le torri, le scale, il vento).
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
qui l'observent avec des regards familiers.
E il familier di Baudelaire si legge come l'unheimlich di Freud,
perturbante, ambiguo.
Forse è questa una possibile chiave di lettura delle opere
narrative di Longo: l'ambiguità.
Ma si tratta di una ambiguità che va ben oltre quell'alone di
sublime incertezza che avvolge le parole della scrittura narrativa o poetica.
E' un'ambiguità sostanziata da una riflessione che ha le sue
radici nel mondo della scienza.
Prima di andare a Mestre, nel 1998, avevo ordinato da bibli gli
Atti del Convegno internazionale sull'ambiguità, a cura di
Giuseppe O. Longo e Claudio Magris (Moretti & Vitali, 1996).
Il convegno era stato organizzato a Trieste nel 1992 dal Laboratorio
Interdisciplinare Superiore di Studi Avanzati (LISSA).
A Mestre ho conosciuto Longo, l'ho
intervistato per MeDea.
Al mio ritorno a Roma, ho cominciato la lettura parallela delle opere narrative
e dei saggi scientifici di Longo, che è molto più scienziato di quanto
non voglia ammettere. Certo, è vero che nelle scienze si tende alla
eliminazione, spesso brutale e riduttiva, dell'ambiguità, quella stessa
ambiguità che invece contribuisce al valore
estetico dell'opera d'arte, aprendo una pluralità di interpretazioni;
ma è pur vero che, per me profana, gli spazi di ambiguità che il
mondo scientifico rivela (e che il convegno di Trieste ampiamente documenta)
costituiscono non solo un terreno stimolante di indagine, ma anche - come dire -
un sollievo, un riconoscimento, una agnizione: "Ah! Era così...".
Vorrei cominciare un gioco, un gioco con figure, tutte giocate sul tema dell'ambiguità.
La prima figura è quella del simbionte, con la quale concludevo
l'intervista
a Longo.
Nulla nasce dal nulla. Ripensando in seguito a quella mattina (mi ero
svegliata alle cinque e come una furia l'avevo disegnato al computer), ho
pensato che in me potevano aver agito inconsciamente tre antecedenti grafici
del simbionte, tutti caratterizzati dall'essenzialità del segno:
il logo di bibli, il piccolo disegno di Fabian Negrin sulla copertina del
Golem, l'Endimione I di Giuseppe Rocca.
Quello che non potevo immaginare tuttavia era che il simbionte funzionasse come
una "figura bistabile", ambigua, incoraggiando tra amici e conoscenti una diversa sorprendente
interpretazione...
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