I critici si sono accaniti su questo
sonetto, tirandolo da tutte le parti, squartandolo, vivisezionandolo per
estrarne senso, o meglio, per trarne fuori quel senso che avevano deciso
di attribuirgli.
A parte le discussioni sulla parola “porto”
dell’ultimo verso (rappresenta Dio? La donna amata? La gloria letteraria?) i
problemi riguardano soprattutto la parola “oblio”: ha un senso attivo o
passivo? E’ il poeta a dimenticare (la retta via) o a esser dimenticato
(dall’oggetto amato)?
Ma non è tutto: normalmente è l’acqua (il
fiume Lete, il mare) a rappresentare metaforicamente i neri abissi dell’oblio,
mentre questa volta è la nave stessa ad essere “colma d’oblio”: sgomento dei
critici, che si vedono imbrogliare le carte…
Eppure la limpida parola del poeta evoca
un’immagine così nitida, così precisa nei suoi particolari: un vascello
fantasma, spinto dal desiderio e dalla speranza, disegna coraggiosamente la sua
rotta, con l’amore al timone e la sfida ai remi, tra Scilla e Cariddi.
Ma ecco, già la vela si lacera, una pioggia
di lagrime e una nebbia funesta appesantiscono i cordami, nascondono le stelle:
tutto è ormai solo ignoranza, errore, disperazione…
Da qualche tempo l’immagine di quella nave
in pericolo mi assedia: le mie riflessioni sulla memoria, la storia, l’identità
e l’oblio hanno risvegliato creature mostruose che risalgono minacciose dagli
abissi: l’ignoranza, l’errore, la disperazione…
Il momento politico che stiamo vivendo
richiederebbe prese di posizione nette, forti, lucide, per disinnescare gli
attacchi incessanti contro la nostra morale laica, contro i diritti e la
dignità di chi non può o non sa difendersi, contro la nostra esigenza di
giustizia, il nostro desiderio di libertà responsabile, di cultura condivisa,
di pienezza sessuale.
Come reagiscono le donne?
Purtroppo le loro reazioni molto spesso non
sono né nette né forti né lucide.
Cerchiamo di vederci chiaro.
Da qualche tempo sto assistendo ad un
graduale indebolimento, a un deterioramento, diciamo addirittura ad una
degradazione della capacità di intervento delle donne (tranne rarissime
eccezioni) a tutti i livelli: vita privata, posto di lavoro, ambienti culturali
e politici, comunicazione.
Questa degradazione può avere come prima
manifestazione un oblio totale – una totale ignoranza – della storia e delle
lotte che hanno caratterizzato i movimenti di liberazione delle donne (e degli
uomini!), come se uno se ne dovesse vergognare, il che comporta un
appiattimento su interessi economici e fatti contingenti, senza storia. Le
famiglie non hanno più memoria, il mobbing impazza a letto e sul lavoro,
il prêt-à-porter pseudoculturale pervade i media: si accetta tutto senza
reagire. Eppure, già nel Settecento una donna
sapeva come servirsi dei mezzi di comunicazione allora disponibili per
difendere e diffondere le sue convinzioni…
Ma la degradazione-degrado di cui ho
parlato può anche esprimersi attraverso altre reazioni aberranti: invece di
elaborare lucide strategie di intervento politico, di preparare documenti da
far circolare (gli avversari non sono certo sprovveduti!), le donne si perdono
troppo spesso in sterili polemiche, a volte con toni isterici, che comportano
la loro automatica esclusione dai luoghi in cui si prendono le decisioni
importanti.
E ancora più spesso queste polemiche si
fanno – ahimé – tra donne: ciò che ho letto fra le righe a proposito del
colloquio romano sull’identità (“vecchie”
femministe contro femministe giovani) e ciò che Gabriella Alù ci riferisce
questo mese a proposito del disagio della
politica (il contrasto fra le donne che operano all’interno delle
istituzioni e quelle che preferiscono restarne fuori) mi ha veramente avvilito:
quanto tempo sprecato nei dibattiti!
Possibile che sia più importante rivendicare
delle priorità, proclamarsi come le uniche, le sole “vere” femministe,
piuttosto che lottare concretamente insieme contro questa marea montante di
clericalismo, neoguelfismo, neorevisionismo privo di cultura storica?
Ma non è tutto. Le polemiche di cattiva
lega (ben altrimenti utili sono le discussioni che servono a chiarire, a
costruire) tra donne trovano il loro terreno privilegiato su internet,
all’interno delle liste di discussione (ricordate “Sebben che siamo donne”?) ma anche, anzi
soprattutto, nella posta elettronica, quando viene utilizzata
all’interno di un gruppo.
La meravigliosa possibilità di spedire
nello stesso tempo (e in tempo reale) un solo messaggio a parecchie persone
provoca in alcune donne effetti nefasti: la presenza di un pubblico silenzioso,
invece di rendere più fluida e immediata la comunicazione, le spinge troppo
spesso, ahimé, a parlare a nuora perché suocera intenda. Le altre… “nuore” perdono
il loro tempo (ancora una volta: che spreco!) a schivare proiettili che non
erano indirizzati a loro. Quando queste “prime donne” si scatenano, io mi
defilo per non infettarmi: si tratta infatti, anche in questo caso, di una vera
e propria malattia della comunicazione.
Ignoranza, errore… disperazione. Sì, ci
sono anche donne disperate. Non ignorano il passato, non schiamazzano
istericamente, non attaccano le altre donne, ma hanno spesso la sensazione di
non saper reagire in modo adeguato quando vengono attaccate. Si sentono
sprovvedute, si colpevolizzano e preferiscono restare in silenzio perché non
sanno argomentare.
Mie carissime, la nostra nave rischia di
affondare, siamo in pericolo: che vogliamo fare?
Per salvare “la ragione e l’arte” io ho solo
due rimedi: la lettura (in senso lato, anche un giro in città o un
viaggio è una “lettura”) e la scrittura.
Sì, lo so: docens in æternum, me lo
ha già detto titjan nella nostra discussione
di questo mese, accusandomi di puntare tutto sulla cultura.
Ma sul vuoto culturale non si elabora
nessuna strategia.
Ed io vorrei poterle condividere con voi,
queste lucide strategie per combattere tutto ciò che ci soffoca e ci costringe
a fare marcia indietro.
Ecco perché vorrei
parlarvi di due libri che forse potrebbero aiutarci in questo lavoro di
elaborazione comune.
Il primo ci insegna ad argomentare.
Il secondo ci parla dell’arte
dell’oblio.