Avevo diciotto anni. Ad una festa conobbi Peppino, un ragazzo molto bello. Volle riaccompagnarmi a casa in macchina. Ci fermammo a baciarci sotto la luna davanti alla basilica dei Santi Giovanni e Paolo, una cosa dolcissima.
Ma poi io rovinai tutto. Che cosa dissi? Una piccola frase, una semplice battuta, una riflessione personale? Non ricordo. So solo che si ritrasse, si appoggiò al volante della sua macchina, mi guardò profondamente deluso come se lo avessi tradito e disse: "Ma allora sei intelligente!"
Non lo rividi più.
Capirete fra poco perché questo ricordo agrodolce è riemerso dopo quarantasei anni proprio mentre leggevo il libro di Fatema Mernissi.
Fatema, che ha più o meno la mia età (lei è nata a Fez in Marocco nel 1940, io nel 1937 a Roma), è docente di sociologia presso l'Università Mohammed V di Rabat, studiosa del Corano e scrittrice (i suoi libri sono tradotti in più di venti lingue).
Il risvolto di copertina ci informa che
"da molti anni è impegnata in attività di ricerca e insegnamento in ambito internazionale per sostenere una visione pluralistica della società islamica, fondata sull'umanesimo e sul femminismo e opposta alle concezioni e alle pratiche dell'estremismo integralista."
Promettente, no?
Durante un viaggio in Francia per la presentazione del suo libro sull'harem La terrazza proibita (Giunti 1996), Fatema si accorge che i giornalisti occidentali, sentendo o pronunciando la parola "harem" non possono trattenere un certo ambiguo sorrisetto, che davvero la sconcerta e la disorienta: come si può sorridere evocando una crudele prigione?
Decide allora di affrontare il problema, seguendo gli insegnamenti di sua nonna Jasmina, che era illetterata e aveva sempre vissuto reclusa in un harem: il viaggio, questo meraviglioso privilegio a lei concesso sin da quando a diciannove anni era andata da Fez a Rabat per iscriversi all'università, sarebbe stato utilizzato come un'occasione di conoscenza.
"Da principio non fu facile trasformare il mio sentimento negativo in uno stato d'animo positivo, più propizio all'apprendimento. Cominciavo a domandarmi se, data la mia età, non stessi perdendo la capacità di adattarmi rapidamente a nuove situazioni, e mi terrorizzava l'idea di diventare rigida e incapace di accogliere l'imprevisto. Ma nessuno fece caso alla mia ansia, durante quel viaggio di promozione, grazie al pesante bracciale berbero d'argento che sfoggiavo, e alla profusione di rossetto Chanel sulle mie labbra."
(p.7)
Fatema scrive così, mie care lettrici, senza dimenticare il suo corpo (si può, si può, anche se si è docenti all'università...).
La nonna le ha tramandato, modificandole ereticamente e colorandole di misticismo Sufi, le antiche storie delle Mille e una notte. Il nucleo centrale della sua storia preferita è questo:
"La donna dovrebbe vivere come una nomade, sempre all'erta, pronta a migrare anche quando è amata, perché - almeno, così dice la fiaba - l'amore può fagocitarla e diventare la sua prigione."
(p.9)
Così armata, Fatema si muove intrepida nel mondo degli uomini (orientali e occidentali) sul filo del tema dell'harem.
Il suo libro raccoglie le sue riflessioni su due culture dissimili, divergenti: per noi occidentali è una provocazione e una sfida.