passato un po' di tempo, avete utilizzato la freccetta rossa per tornare alla Prima parte?
Dunque, avevo espresso le mie perplessità sul dramma Il cervello nudo di Pino Longo, quando ad un tratto mi ero accorta di avere in mano....
P.M.
3. "Celeste Aida..."
Quando ero piccola c'era la guerra, e non andavo a scuola perché mia madre non voleva che mi allontanassi da lei. Avevo imparato a leggere molto presto e mi esercitavo con tutto quello che mi capitava a tiro. A casa c'era il pianoforte, c'erano gli spartiti, le trascrizioni dei melodrammi per pianoforte - e c'erano i libretti d'opera.
"Celeste Aida - forma divina", "Questo è il mondo - vuoto e tondo", "Tu, tu piccolo Iddio...". Molto meglio del Signor Bonaventura (vuoi mettere?), e poi, c'era la musica...
Ebbene, Il cervello nudo è un libretto d'opera.
Un libretto d'opera?!?!
Dài, Pino, non fare quella faccia! Perché vedi, nel momento stesso in cui ho pensato di leggerlo in questa chiave, il malessere e il disagio sono scomparsi: ogni cosa è andata al suo posto, ogni discontinuità e incongruenza ha trovato la sua giustificazione. Ci sono le arie, ci sono i recitativi, ci sono le cadenze, c'è il coro, ci sono i duetti, e soprattutto c'è la musica, la musica del testo che finalmente si rivela.
Sono nuclei melodici cari all'autore, temi che riconosco per averli già uditi altrove, forse in una tonalità diversa (in minore?), chissà...
I musicisti, gli scrittori,
tutti gli artisti sono trafitti da pugnali affilati come la Madonna dei Sette Dolori (e qui Sette vuol dire Settanta volte Sette), come san Sebastiano, o, più laicamente, come un arciere sfortunato: sono i loro temi ricorrenti che li ossessionano, li straziano, lasciando tracce insanguinate nelle complesse vie che solcano le loro opere. Nelle opere di Longo vanno e vengono medici opportunisti e malati immaginari (ma non troppo) (come il protagonista del racconto Avvisi ai naviganti scritto nel 1988), creatori malvagi (si pensi al colpevole creatore descritto nel romanzo L'acrobata) e creature imperfette, tenere donne e macchine dolenti (Il fuoco completo ha le sue machinæ dolentes...).
Nelle pagine del Cervello tutti questi personaggi si immobilizzano, si rapprendono, perdono i loro succhi vitali, si trasformano in figure simboliche, diventano carte dei tarocchi.
Ma si sciolgono, si rianimano nel canto. Le arie... Voci, solo voci: basso, baritono, tenore, contralto...
Chi sono l'ambiguo Arcularis (forse Auricularis, poiché di tutti i sensi gli è rimasto l'udito) e l'insinuante Krajlevic (kralj = "re", ma kraja = "furto" in sloveno)? Sarastro e Monostatos? O piuttosto Otello e Jago? Faust e Mefistofele? E Arne, tenore di grazia come lo sciocco Don Ottavio o il detestabile Pinkerton, che accusa Marion di aver abortito, con frasi odiose: "Perché l'hai fatto?", "A me non hai pensato...", fino alla classica "Avremmo potuto tenerlo...". E Bonaldo, eterno prigioniero di recitativi di bassissima lega (le sigarette, i fiammiferi, "è aperta la cucina?", "Vuole un pezzo di cioccolata - contro la depressione?").
E adesso parliamo di Marion, alla quale consacrerò più spazio, come si addice ad un sito di donne come MeDea.
Quando Pino Longo parla delle donne, non è certo per sentito dire. Le vogliose attempate affittacamere, le bionde e croccanti (nel senso di à croquer) cameriere che rivaleggiano in seduzione con la barista di Joyce (quella che faceva schioccare la giarrettiera, ricordate?), le infermiere disponibili fasciate nei camici... le vestaglie che si schiudono, i velluti, la pelle venata d'azzurro, i capelli ramati... insomma, non c'è che dire: circola l'eros.
Qui però... Nella sacrificale Marion si incarnano tutte le Margherite, le Leonore, le Cio-cio-san, vittime della follía degli uomini. Ma il corpo non c'è.
D'accordo, Pino, l'attrice che l'incarnava a teatro sarà stata indubbiamente molto bella, ma qui io vedo solo una ragazza, colpevolizzata e colpevolizzante, che reagisce come un'istitutrice svizzera alle (senza dubbio maldestre ma pur sempre) avances di Bonaldo e si fa carico di tutti i mali del mondo, di tutte le cose "mal riuscite".
Questa immensa pietà generalizzata, questa empatía all'ennesima potenza per "la carne del mondo" si estende purtroppo anche all'abominevole padre (e qui io, in questa mia faziosa e irriverente ricognizione, avrei voluto molto più Tosca che Desdemona). Alla fine del dramma, quando finalmente ha luogo (è l'unica cosa che succede) l'incontro con la figlia, Arcularis finge di non riconoscerla, ma non solo: la costringe ad autoannientarsi (e forse lei ne aveva la vocazione) riducendola a voce recitante di un improbabile bollettino del mare: "calma di vento... forti rovesci... burrasche in corso sul mar di Levante..."
Il mare. Su tutte le voci, possente come un maëlstrom wagneriano, la voce del mare copre le insulse chiacchiere e si esalta nel coro aurorale dell'inizio, che si ripete alla fine:
Il mare! Il mare! Dal mare siamo venuti,
ci trasciniamo sulla terra, aneliamo al cielo,
il fuoco ci consuma!
"O terra, addío; addío, valle di pianti..."
Ma come lasceremo questa valle di pianti se l'astronave non c'è più?