Questo è il racconto del ricordo di un viaggio che percorre a ritroso l'ultimo cammino della Katër I Radës, motovedetta albanese affondata dalla Marina militare italiana nelle acque di Otranto, la notte del venerdì santo 1997.
Brindisi, Valona e poi Durazzo e Tirana, giugno 2001.
E quindi si parte da Brindisi dove ha inizio la nostra, se così si può dire, "tournée". Perché con una tournée, in fondo, ha ben poco in comune e la sua diversità è nell'oggetto stesso della rappresentazione: non-teatro di parole, di voci che si sovrappongono, alla ricerca di una loro fusione, tra letture di annotazioni tecniche, poesie di migrazione e ricordo, cronaca fredda e asettica dei verbali dello speronamento, articoli della Costituzione italiana e del Codice di Diritto Internazionale.
Sarà comprensibile in Albania il nostro teatro? Sarà comprensibile la messa in scena del nostro "senso di colpa"?
Comunque, si inizia con la prima replica, appunto, dal porto di Brindisi, dove per l'occasione diventa spazio scenico la grande sala d'aspetto. Il mare, quel mare, è sullo sfondo, scenografia naturale dalla quale ci separa una grande vetrata, il tramonto e la notte che si susseguono, seguendo il ritmo del testo, segnandone, poi, la fine.
E poi, si parte per Valona. Noi quattro attrici (con me c'erano Deborah Della Valle, Emanuela Schiavetto e Tania, la ragazza tedesca che sostituiva Rita Salonia), accompagnate dal direttore di scena e da Bobo Aprile, responsabile dell'Osservatorio Permanente Italia-Albania di Brindisi, che ci ha molto sostenuto e incoraggiato.
Su una comoda nave con cuccette, forse abbiamo attraversato il punto preciso in cui la nave è affondata, forse, chissà, la nostra nave si dev'essere fermata per un solo istante lì dove le altre si sono scontrate, dove mani disperate hanno cercato un ultimo appiglio, paure, grida, rumori, silenzi.
Lì, in quel punto preciso, ne sono certa, il momento esatto della morte ancora si ripete incessantemente, non puoi vederlo né sentirlo, ma c'è.
Pensieri notturni, mentre tutto era calmo e mi lasciavo andare al dolce dondolio delle onde. Dormirò bene, pensavo, a me il mare non fa paura.

Valona, il giorno dopo, ci ha accolti con un bellissimo sole di giugno e con lo straordinario calore degli attori del suo storico Teatro Nazionale; grande esperienza e professionalità trasparivano prepotentemente da un atteggiamento di sincera gratitudine per essere andati a trovarli.
"Abbiamo bisogno di buoni amici" è la frase che ricordo con maggior nitore, pronunciata dalla voce roca e consumata da mille sigarette al minuto da Cristian Scrami, direttore del teatro.
E poi gli altri, l'ospitalità in un albergo con una grande terrazza che affacciava sul mare.
La sua forza è prepotente, da quelle sponde sono partiti in tanti - e ancora partono - per venire in Italia.
Da quelle sponde era partita anche la Katër I Radës e la sera, allo spettacolo, c'erano alcuni dei superstiti ed alcune donne che in quel viaggio avevano perso i figli o i mariti. Sedute in prima fila, ci osservavano e sembravano comprendere ogni parola, e ogni parola in quel momento assumeva un peso che fino ad allora non aveva mai avuto: diventava vera, evocava un dolore realmente vissuto, che ancora segnava i volti.
Che cosa ci faccio, io qui, ora? Eppure, nonostante la voglia di fuggire, siamo rimaste lì sul palco, imperterrite nel riaprire la ferita, quasi incoscienti nella rievocazione della morte: un semplice suono di tamburi come simbolo dell'urto tra le navi, pochi passi frenetici lungo la striscia di plastica della scenografia che riproduceva il mare per rappresentare la paura, cerone bianco sul viso a indicare la fine delle speranze, tutto era diverso.
Ti viene da piangere alla fine dello spettacolo? Gli applausi non danno gioia, stasera? Portano i fiori, loro a te?
I balli serali e la cena hanno sancito, poi, il momento dei saluti: prendi il mio indirizzo, verremo in Italia, vorremmo portare un nostro spettacolo di Pirandello, ma ne abbiamo molti altri.
Ciao, Teatro Nazionale di Valona.
Il giorno successivo, siamo andate a Durazzo e lì c'è stata un'altra sorpresa, diversa, quasi divertente se anche questa volta non fosse rappresentazione di uno stato d'animo drammatico e contraddittorio: tre ufficiali della Marina militare italiana di stanza in Albania erano seduti in prima fila, incaricati dai loro vertici di assistere allo spettacolo per riferirne contenuti e posizioni.
Ma, in realtà, pur se a pochi chilometri di distanza da Valona, Durazzo si è subito presentata diversa, il suo pubblico meno coinvolto; molti giovani (giovanissimi) che sembravano non conoscere l'evento raccontato, o non volerlo ricordare. E loro, insieme alla Marina, rimandavano uno strano effetto di rifiuto: gli uni non volevano sapere, gli altri non volevano che si sapesse.
In fondo, poi, quella distanza mi sembrava anche comprensibile: come poter cominciare a pensarsi diversi, come potersi percepire nuovi ed in grado di affrontare il momento nuovo, la prospettiva di essere popolo, Stato che si ricostruisce aprendosi, se l'immagine proposta è sempre quella dell'emigrante che va per mare, che deve sottostare alle umiliazioni o al senso di pietà dei vari ospiti. Forse era questo che, credo inconsciamente, quei ragazzi seduti in teatro pensavano e, forse, i marinai in prima fila pensavano più o meno le stesse cose: come potremo mai essere accettati, se gli stessi italiani ci screditano agli occhi di questa gente, se rivangano storie ormai passate, delle quali, noi, non abbiamo colpa.
La colpa non è mai la nostra: è il caso, il destino, l'intervallo di un attimo di troppo.
Infine, Tirana ci ha ospitate nella sua Scuola nazionale d'arte (ma, ora, può essere che mi sbagli, che non ricordi la sua esatta denominazione), tra un suono di violino o di sax, tra tanti volti di ragazze e ragazzi che, come tutte le ragazze ed i ragazzi, camminavano un po' incantati e svagati lungo i viali del campus.
E quella sera, finalmente, lo spettacolo è stato più sereno, ascoltato ed osservato da un pubblico fatto - in buona parte - da studenti "addetti ai lavori" che ne ha giudicato l'impianto, ponendosi in posizione dialettica, critica, attenta, come giusta sintesi tra Valona e Durazzo. Ma è piaciuto, credo, molto.
Rientrando in Italia, il mare era mosso e io, che se viaggio in aereo mi appiattisco sul sedile e ne divento un tutt'uno rigido, ho dovuto fare coraggio alle altre che impallidivano a ogni onda attraversata.
E ho dormito tranquilla, a me il mare non fa paura.
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