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Il segnalibro
di
Paola Musarra
con
Loretta Cappanera


Roma, aprile 2007

Da qualche giorno mi sorprendo a rigirare tra le mani un piccolo "oggetto", un segnalibro di carta che la mia amica, l'artista Loretta Cappanera, mi ha regalato.

L.Cappanera - Segnalibro (recto)
L.Cappanera - Segnalibro (recto)

E' un cartoncino dai bordi irregolari, con una citazione dalla poesia Annunciazione di Rilke, ma non è tutto. C'è anche, sotto la citazione, una sottilissima lista dello stesso cartoncino, una cicatrice rilevata che marca il segno di una sutura (fatta a mano col filo rosso, dopo aver segnato la traccia con un minuscolo punteruolo, mi ha spiegato Loretta).

Ma è davvero una sutura?

In questi giorni ho finito di leggere alcuni scritti inediti del professor Enzo Moietta (ha insegnato filosofia nei licei, è uno studioso di filosofia del linguaggio) in un gruppo di lettura organizzato dall'instancabile Circolo Bateson.

Che cos'è un gruppo di lettura? Beh, c'è chi lo vede come un'occasione per incontrare gli amici, chi come un gruppo di autocoscienza, chi come un gruppo di scolaretti disciplinati che ascoltano il maestro, chi come un incontro di boxe, chi come un gruppo di (sola) discussione, chi come un gruppo di (solo) ascolto, se non addirittura come un gruppo di preghiera...

Io, che non mi ritengo immune da nessuna delle precedenti interpretazioni (beh, il gruppo di preghiera magari no...), mi sento di condividere alcune affermazioni contenute nell'Introduzione al gruppo di lettura su Moietta (visibile sul sito del Circolo Bateson):
"(...) Negli incontri ogni componente partecipa con il proprio stile di pensiero; le sollecitazioni, i dubbi, le domande che emergono dalla lettura vengono commentati insieme dai partecipanti al gruppo, dando luogo a una logica circolare in cui ciascuno dei componenti influenza gli altri ed è allo stesso tempo influenzato dagli altri (...)".

Ma che c'entra questo con il segnalibro di Loretta Cappanera? Calma, cercherò di spiegarlo (per prima cosa a me stessa) con il minor numero di parole possibile.

Negli scritti di Moietta ricorrono alcuni nomi a me cari: Nietzsche, in primo luogo, con il suo disperato attacco contro la Metafisica.

E soprattutto Foucault, Deleuze... Ricordo preziose letture, fecondo incontro con la cultura francese, corrosiva, corroborante, destabilizzante. Dieci anni fa (déjà...) ho rievocato questo incontro per me decisivo proprio su MeDea (è un'emozione rileggere oggi quelle riflessioni, nella loro - intoccabile! - impaginazione d'epoca).

Tumultuosi anni Settanta: tremano il trono e l'altare per l'attacco ai poteri e ai saperi, si spezza anche il triangolo edipico, vacilla l'io, vacilla la scienza con le sue certezze, si traccia la strada per liberare il desiderio prigioniero del bisogno, del mercato...

Via le corazze, al loro posto fratture, sconnessioni, linee di fuga, béances, manques e clivages confusi in un insanabile iato. Ogni continuità si frantuma in mille piani, mille pieghe: emergono striature, intersezioni, attraversamenti, nomadismi, in un processo continuo di (de)(re)territorializzazione. Un pensiero (e una scrittura) assediati, braccati, che continuamente si sottraggono al carcere delle definizioni.

Bene, torniamo a Moietta, che sembra volersi inserire in questo filone di pensiero.
Va detto subito che i testi che abbiamo esaminato nel gruppo di lettura sono, dal 1998 a oggi, tutti interventi a seminari e convegni su Gregory Bateson; hanno quindi un carattere discontinuo, legato alle circostanze e quindi non particolarmente strutturato.
"Deleuze parlerebbe di 'oggetti parziali' che, nel mio caso, prevedono uno sviluppo più organico sul tema della soggettività", precisa Moietta, che ho consultato per chiedergli il permesso, cortesemente accordato, di parlare dei suoi scritti inediti su MeDea.

Comunque, i suoi acuti strali polemici si rivolgono non tanto contro Bateson, del quale quasi sempre dichiara di apprezzare il rigore, la problematicità e la cautela di scienziato, quanto contro una - come dire? - vulgata (pseudo)batesoniana, buonista e rassicurante che, a partire da ciò che Bateson chiama "struttura che connette" (per i necessari approfondimenti su questo punto e per la bibliografia vi rimando al sito del Circolo), mette in un unico accogliente "grembo" tutte le creature viventi (l'ameba, il granchio, la chiocciola, il cavallo... l'uomo), grazie a un "olismo universale", a una speciale fratellanza e continuità comune a tutti gli organismi che hanno una storia di crescita da raccontare.

No, sostiene Moietta, non c'è continuità ma frattura tra l'uomo e le altre creature viventi, perché solo l'uomo è dotato di pensiero verbale e di coscienza:
"Non sto dicendo che non voglio assomigliare ad un granchio e che non voglio avere nulla a che fare con le altre forme viventi. [non resisto alla tentazione di sottolineare che tutte queste negazioni farebbero la gioia di qualsiasi psicoanalista, freudiano o non freudiano (nota di Paola)] Penso solo che sia nel caso in cui si sostenga che l'uomo non abbia nulla a che fare con gli altri animali non umani, sia nel caso in cui si sostenga esattamente l'opposto, pur con tutte le posizioni intermedie, queste idee non possono essere avallate da alcun ricorso ad un preteso riscontro oggettivo, per la ragione che queste teorie, qualunque esse siano, non possono che nascere nella testa di un uomo." (E.Moietta, Il tempo operativo, giugno 2002).

Bene, fin qui tutto è chiaro. Ma non è tutto.
Moietta infatti, forse prevedendo alcune obiezioni (i recenti studi ed esperimenti sugli animali ci dicono cose diverse, l'Homo sapiens non è altro che un ramoscello - e nemmeno particolarmente ben riuscito - nel grande cespuglio dell'evoluzione...), rivendica comunque l'appartenenza al vivente ricorrendo ad un geniale escamotage:
Richiamandomi ad una posizione filosofica che è articolata ed è tuttora più viva che mai in questi ultimi anni in Italia (mi riferisco, per es. alle posizioni teoretiche di Agamben e di Sini), lo strappo operato dal linguaggio nei confronti della struttura che connette è uno strappo tutto particolare. E' uno strappo che fa relazione. O, se si vuole, è una relazione che si ottiene attraverso uno strappo; dove però, strappo e relazione, non sono legati da alcuna consequenzialità temporale, ma costituiscono un evento unico e sincronico.
Tale strappo proprio in quanto fa sì che l'uomo non partecipi più della "naturalità" delle relazioni, senza tuttavia sottrarsi ad una modalità specifica di relazione, si presenta come una sconnessione che connette, come uno strappo che cuce; oppure come una connessione che sconnette, una cucitura che provoca una separazione."
(E.Moietta, Ci hanno fatto credere che esistono solo relazioni, Napoli 1999).

Questo che ho definito "geniale escamotage" attraversa come un filo (rosso) tutti gli scritti di Moietta: si parla di concetti "legati da una frattura, da una differenza", si parla del linguaggio che "divide ciò che collega", si parla di "unità di una frattura", di "divisione che connette", di "una linea di frattura che (...) non si limita a dividere ma connette nel momento stesso in cui lacera"... Mi fermo qui.

Ma di che cosa stiamo parlando? Mi chiedo se non si tratti per caso di un escamotage che nasce e muore nel linguaggio, anche se pretende di render conto di altro: le parole ci trascinano, e noi le trasciniamo... (a proposito, avete fatto il giocotest?).

Ho bisogno di immagini, è una mia debolezza, lo confesso, ho bisogno di "vedere" (come al poker).

Mi sforzo di visualizzare "la frattura che connette", penso a tutto ciò che lacera e ricuce, penso ai contorni, alla pelle, ai confini, ripenso al concetto di frontiera che esiste per essere attraversata (ne abbiamo parlato anche su MeDea, ricordate?)

Gioco con il segnalibro di Loretta Cappanera, lo rigiro tra le mani e... sorpresa: al rovescio non c'è nessuno strappo ricucito. C'è solo il filo (rosso) della cucitura che attraversa la superficie liscia, uniforme, continua del cartoncino.

Segnalibro di  L.Cappanera (verso)
L.Cappanera - Segnalibro (verso)

Telefono a Loretta. Sì, alla base c'è un suo desiderio di cucire insieme, anzi di (ri)cucire le disiecta membra della sua storia personale (ne parleremo su MeDea), ma quando le faccio notare che in realtà non c'erano parti staccate del segnalibro da ricongiungere, ecco che la "cucitura" le si rivela non solo come gesto artistico per un più equilibrato rapporto pieno/vuoto sul piccolo rettangolo di cartone, ma come "marcatura", come personale "attraversamento" del cartoncino, per il piacere di perforare con un piccolo punteruolo e trapassare con un filo (rosso, non a caso) una superficie liscia, una uniformità da spezzare: un territorio da marcare, striare, solcare con un proprio segno.

Quando avevo una ventina d'anni circolava tra noi ragazzi/e facendoci molto divertire - forse qualcuno/a se ne ricorda - il manuale di Paolo Mantegazza, Fisiologia del piacere, scritto un secolo prima. Il trattato analizzava alcune sensazioni di piacere che ciascuno/a di noi prova in determinate circostanze. No, niente Delerm, ma qualcosa di molto più bizzarro.
Ricordo in particolare due "piaceri": quello di perforare con un ago una carta spessa e quello di fendere a bracciate la liscia superficie dell'acqua.

Chissà che scherzi mi gioca la memoria, chissà se c'erano questi due piaceri o no... non ha importanza. Mi servono per concludere senza concludere (ebbene sì, giochiamo con le parole), anzi aprendo alla riflessione nuovi percorsi.

Uno è quello dell'artista che incide, intaglia, scava la materia, l'altro è quello di ogni writer o tagger che non resiste alla tentazione di "segnare", appropriandosene, un muro, un vetro, la fiancata di un autobus...
E il piercing, che cos'è? E dov'è il labile confine che trasforma la carezza in penetrazione-appropriazione?

In una nuova luce mi appaiono i Tatuaggi di Antonella Bukovaz, e le cicatrici che il tempo e il troppo sole hanno inciso sul mio corpo.

E forse la scrittura, su carta o su schermo, altro non è che una cicatrice ostentata, esibita, che non deve guarire mai.

L.Cappanera - Xilografia
L.Cappanera - Xilografia



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