Nel mese di giugno presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma è stato presentato il romanzo “Angeli armati” (ed. Besa 2008) della scrittrice albanese Diana Çuli (vedi "A Roma con Diana Çuli").
Anna Cenerini Bova è Avvocato dello Stato e moglie dell’ex ambasciatore a Tirana Mario Bova.
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E' lo stesso romanzo di Diana a porre l’esigenza di un cambiamento, descrivendo una condizione femminile prigioniera di false retoriche e pseudo valori che condizionano fortemente e in maniera sinistra il destino delle donne descritte.
Amalia, la madre di Aleks, è doppiamente coartata e condizionata dall’arroganza paterna. Non solo il padre uccide l’uomo di cui è innamorata e che intende sposare, ma la priva dell’essenza della maternità: non potrà mai rivelare a nessuno e tantomeno al figlio di essere sua madre. La gente non deve sapere, l’onore va salvato.
Non sta meglio Elena, che il marito ha lasciato per emigrare in America. A lei la responsabilità di crescere i figli, di accudire la vecchia suocera, di portare avanti il lavoro dei campi.
Elena ogni tanto si chiede perché il marito non abbia mai fatto progetti per una ricongiunzione, per un futuro insieme, e si strugge nel ricordo di quest'uomo. Certo, le arrivano puntualmente i denari per far studiare i ragazzi, ma non è vita questa di vedova bianca, e quando viene la guerra e i tedeschi arrivano in paese Elena avverte tutta la fatica e la solitudine di questa situazione.
Anche la madre di Mark, la zingara senza nome, è un’altra vittima: ha dato l’unico figlio a Gaqi Zaharia, ma questo non la preserva dall'essere trattata come una serva, dal dover svolgere le fatiche più pesanti, dall'essere cacciata di casa dal cognato non appena Gaqi muore. Anche qui la presenza del bambino e della madre nella casa di famiglia è vista come un disonore: meglio liberarsi di entrambi mandandoli ad abitare più lontano possibile nel paese e tagliando qualsiasi legame con la loro famiglia.
Agime e Luiza, le due partigiane, sono l’altra faccia di questa realtà: donne schiacciate dal distorto senso dell’onore e della predeterminazione di un ruolo femminile non certo a misura di donna e non certo proveniente da menti femminili. Anche loro sono imprigionate da questi stereotipi interiorizzati e di fronte a delle passioni ne diventano facile preda senza poter analizzarle e gestirle. Diana ci dice che in realtà la fucilazione di Dorothea da parte delle altre partigiane fu dovuta ad invidia per la bellezza e il fascino trascinante della sua personalità.
Anche l’invidia e la gelosia si sarebbero potute superare se fossero state riconosciute ed elaborate, ma non certo quando si camuffano da esigenza di tutela dell’onore dei partigiani.
Amalia, consapevole, dice a Neqifor ”Tu sei maschio, Dio ti avrà riservato una sorte migliore”.
Quando suor Maria Teresa dice che la vita di Dorothea è più importante, Rosalia riferisce che Elena, la mamma, le risponde: "l’onore è la cosa più importante”" con rabbia, accentuando la parola “onore”. "Sembrava che non ce l’avesse con Dorothea , quanto con il concetto di onore" , aggiunge Rozalia.
E' in nome di questo onore che Amalia è privata dello sposo e del figlio, che la zingara è cacciata di casa, che Dorothea viene fucilata a 19 anni, perché è in pericolo il buon nome dei partigiani.
Non è la guerra a creare queste sventure, ma tradizioni e valori ancestrali; il senso dell’onore è uno strumento per aumentare e rendere indiscussa la sottomissione della donna, alla quale può essere imposta qualsiasi angheria e privazione.
La logica della mistificazione conduce piano piano all’epilogo della storia: dei due amanti che contravvengono al divieto di amarsi, se pur ipotizzabile, solo la donna è fucilata con rara barbarie (a lui si limitano a strappargli le insegne di partigiano): un eccidio vergognoso da far venire i brividi.
Il partito successivamente ha fatto girare la notizia che vi era stato un contrordine alla fucilazione, ma che non arrivò in tempo.
Ragionevolmente si sospetta che questo contrordine non vi sia mai stato, ma sia stato un accorgimento dell’apparato politico per allontanare la responsabilità di un tale misfatto dai comandi partigiani.
Attraverso le testimonianze di tutti quelli che vi hanno partecipato - anche se solo spettatori impotenti - , nelle bellissime pagine il racconto della tragedia si snoda in forma corale, inserito nella splendida cornice ambientale della costa a sud di Valona.
Una narrazione magica seppur densa di significati.
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Fin qui la scrittrice. Solo che Diana non si è limitata a descrivere e denunciare la situazione femminile, ma ha cercato di cambiare questa realtà: ci si è immersa dentro per modificare la situazione sociale attraverso "cambiamenti individuali e interiori".
Dopo 50 anni di dittatura comunista vi è stata sicuramente una grossa emancipazione sul versante del lavoro: la donna comunista lavorava come l’uomo e nelle stesse professioni. Sicuramente si è affrancata dall’immagine della donna al focolare, ma sono rimaste immutate le responsabilità e i carichi all’interno della famiglia: cura della casa, del marito dei figli, delle persone anziane, e la soggezione all’autorità dell’uomo.
Dice Diana nell’intervista rilasciata nel 2002 a MeDea sulla nuova immagine delle donne Albanesi: “il marxismo negava il femminismo: una donna militante non poteva essere femminista perché la lotta tra i sessi veniva assorbita e risolta nell’ambito della teoria marxista", anche se - ribadisce Diana- neanche la teoria marxista risolveva fino in fondo il problema sociale della disuguaglianza tra uomini e donne. Non si parla di sesso, libertà sessuale, di stupri, ma si organizzano attività ideologiche contro i pregiudizi: un po’ troppo generico per affrontare i problemi della condizione femminile. Di fatto il comunismo ha prodotto un’emancipazione solo parziale, non affrontando l’emancipazione individuale e interiore, sicchè le donne rimangono confinate, nonostante le maggiori occasioni di lavoro al ruolo di madre o di guerriere coraggiose.

Anche Ardita che nel 2002 ha 32 anni conferma in una intervista su MeDea questo giudizio: il paese va avanti solo per le donne: lavoriamo di più e siamo più capaci di far fronte ai cambiamenti. Gli uomini albanesi sono rimasti indietro, non riescono a cambiare, non vogliono vedere le donne avanti a loro.
Apparentemente c’è stato un cambiamento, ma quando si guarda alla tradizione e alla morale, ai rapporti familiari, il comunismo non ha cambiato nulla, anzi su questi aspetti forse si è andati indietro. “Sono cose che succedono in tutte le famiglie albanesi” dice la gente e le stesse amiche quando Ardita chiede il divorzio: il marito le ha ordinato di smettere di lavorare dall’oggi al domani (prima ha lavorato lei sola mandando avanti la famiglia, poi quando lui ha trovato il lavoro ha deciso che lei doveva smettere) e di fronte all’opposizione di Ardita non ha trovato di meglio che picchiarla.
In questa realtà ha operato Diana. Quando l’ho conosciuta gestiva uno dei posti più gradevoli di Tirana : il Forum delle donne nel bel mezzo di un giardino di limoni, dove si poteva prendere un caffè , ascoltare un po’ di musica, mangiare cibi tipici, ma anche fare meeting e gruppi di studio e conoscere l’incredibile attività svolta dall’associazione che è andata nelle città minori e nelle campagne a far prendere coscienza e a creare condizioni di guadagno per le donne in situazioni più arretrate.
Oggi la situazione sembra migliorata, perché dalle ricerche dell’Istat riportate dai giornali il 30% delle donne guadagna quanto gli uomini e il 30% delle mogli guadagna quanto i mariti. Ciononostante l’83% delle donne si consulta con il marito per decidere come usare questo denaro. Restano percentuali consistenti, 22% di donne che lamentano violenze da parte dei loro stessi partners, e una bassa percentuale di attenzione e prevenzione delle malattie tipiche femminili.
Credo che a questo punto il cammino sia identico a quello di tante altre donne in Europa, invito perciò Diana, che tanto ha fatto per le donne albanesi, a cominciare ad occuparsi anche di quelle europee, sia con la sua attività, sia come scrittrice. Ne abbiamo bisogno.