A Tirana
di Anna Rosa Iraldo
Sono arrivata per la prima volta a Tirana nel maggio del '99.
Tutto ha contribuito a darmi immediatamente l'impressione che stavo entrando in una realtą di fronte alla quale non ero del tutto preparata:
- il volo su un aereo delle linee albanesi, incastrata tra il mio corpulento vicino e il mio bagaglio a mano, partecipe delle ansie di una giovane donna con bambino di uno o due anni affetto da una inopportuna dissenteria (inopportuna lo sarebbe stata comunque, ma tanto pił difficilmente gestibile da parte di quella angelica madre in un aereo affollato fino all'impossibile);
- l'atterraggio all'aeroporto di Tirana tra file di elicotteri militari mimetizzati, lungo le quali facevano ginnastica e jogging aitanti giovani militari;
- l'uscita sul piazzale dell'aeroporto dove, malgrado la presenza di un impiegato dell'ambasciata e di un autista, sono stata subissata da insistenti offerte di aiuto da parte di una folla di ragazzini;
- il viaggio verso Tirana tra i resti dei bunker di Hoxha e i segni della guerra in corso in Kossovo: colonne di mezzi militari, rombo di aerei ed elicotteri;
- l'arrivo infine nel condominio anni 50, tipico del regime, dove abitava mio marito.
Quella volta sono rimasta a Tirana meno di una settimana, ma è quella l'immagine della cittą con cui faccio il paragone ogni volta che torno ed ho la misura dei rapidi cambiamenti in atto.
Ed è in quell' anno che ebbi l' occasione di visitare
un campo profughi.
Sono tornata a Tirana per brevi periodi nel 2000 e all'inizio di quest'anno. Ogni volta mi sono trovata a vivere da donna (da casalinga?), in una cittą in cui organizzare la vita quotidiana secondo i ritmi italiani (e romani) è del tutto impensabile, malgrado i rapidissimi progressi (ma saranno poi tutti progressi?) di cui mi accorgo ogni volta che torno.

Prima di affrontare le interviste con le donne albanesi, vorrei parlarvi di questa mia esperienza, per mostrarvi in quale contesto quegli incontri sono nati.
Quale obiettività
di Paola Musarra
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