Che succede quando due lingue si incontrano? Inevitabilmente, i rapporti di forza si fanno sentire: la lingua più debole rischia sempre di annientarsi nella lingua dominante.
Ma per fortuna le cose non sono così semplici.
Le modalità dell'incontro/scontro fra due lingue-culture sono infatti molteplici. Pensate a due organismi viventi che prima si studiano da lontano, poi si toccano, si abbracciano, si stringono, lottano, soffocano, si divincolano, poi si riallacciano, si offendono e si difendono, si incorporano reciprocamente, poi reagiscono e colpiscono, in un moltiplicarsi di fenomeni di attacco e difesa, mimetismo e assimilazione...
Ogni lingua lascia brandelli di sé "dentro" la lingua avversaria. Ma se preferite un'immagine meno cruenta "ogni lingua ha qualcosa da raccontare ad un'altra lingua", come ripeteva la giornalista Fiamma Nirenstein qualche tempo fa su Radio3.
Fatto sta
che le lingue hanno davvero molto da dirsi tra loro. Solo mettendole in contatto, inscenandole nel loro contesto, facendole agire, si può creare quella complicità che da una iniziale visione contrapposta e bellicosa faccia sprigionare il desiderio di una "monophonie interculturelle", capace di "consentire al piacere e alla connivenza di passare attraverso la lingua" (cfr. Danielle Lévy, heteroglossia 1, 2001, p.74).
E' sogno, utopia?
Non direi: alle lingue "vicine" (per lessico, struttura...) questo succede già, è già successo molte volte, come ben sa chi ha più di un cuore nel petto.
Ma che succede a due lingue-culture "lontane" che desiderano incontrarsi?
Ebbene, così come il canto e la poesia creano un ponte ideale tra il palazzo e il mercato, alcune figure di "mediazione" sono necessarie per gettare ponti ideali fra lingue-culture diverse: l'insegnante di lingue, l'interprete, il traduttore...
Tradurre = trans-ducere = far passare.
La mia mente procede per immagini. Pensando alla traduzione del libro di Paolo Petta mi sono fiorite davanti agli occhi alcune "visioni", che vi propongo.
- Ho visto le navi che trans-ducevano gli albanesi desiderosi di sottrarsi all'invasione ottomana dopo la morte di Skanderbeg avvenuta nel 1468: i fieri stratioti e la variegata aristocrazia albanese desiderosa di proporsi sulla difficile scena politica italiana, e con loro i "meschini homeni assai poveri et caricati di figli et figlie" (P.Petta, op.cit. p.8), come scriveva un ufficiale aragonese al suo re, descrivendo la grande massa dei profughi dei quali la storia non sa dirci nulla.
Tutti - dai nobili ai diseredati - sono stati più o meno "assimilati": Ma che ne è stato della loro lingua, già così fragile perché trasmessa solo oralmente?
- Ho visto altre, recenti trans-duzioni, su gommoni e vecchie carrette del mare, di albanesi ansiosi di scomparire nelle terre promesse (Lamerica!), di perdersi in un'altra patria, in un'altra lingua.
Hanno "tradotto", hanno "fatto passare" tutti questi uomini e donne, la loro lingua? In molti casi - troppi - l'hanno semplicemente dimenticata. In alcuni casi - rari! - gli scritti albanesi sono stati tradotti in italiano, con l'inevitabile "perdita" che ogni traduzione comporta (cfr. E.Arcaini, SILTA III, 2001, pp.428-429).
Ma questa volta
- ecco perché ho parlato del forte valore simbolico insito nella traduzione in albanese del volume di Paolo Petta - questa volta è la lingua più forte che si espone al rischio della "perdita" per rendere omaggio all'altra lingua, alla lingua "altra".
E i despoti d'Epiro e i principi di Macedonia riattraversano l'Adriatico per essere ricevuti con tutti gli onori, nella loro terra, nella loro lingua, a Tirana, nella Biblioteca Nazionale.

